Come per ogni invenzione che si rispetti, all’origine c’è una scoperta più o meno casuale. La vicenda che portò il dottor Gilberto Ruffini a osservare le reazioni dell’ipoclorito di sodio è ormai nota a tanti. È il 1991. Ruffini, durante la sua attività di dentista, si trova a dovere disinfettare i canali radicolari dei denti di una paziente, la quale presentava anche delle afte in bocca. L’ipoclorito di sodio è un disinfettante comunemente utilizzato proprio in odontoiatria. Il caso vuole che una goccia vada a cadere proprio su un’afta della donna, il miglioramento è praticamente immediato, osservabile a occhio nudo.
Da medico, non trattandosi di una sostanza pericolosa ma già usata in ambito sanitario come disinfettante, ha l’intuizione di ripetere l’applicazione ogni qualvolta ne abbia occasione, riscontrando sempre la stessa reazione positiva. Gilberto Ruffini può così notare che lo stesso effetto si registra in molte altre situazioni, che ben presto superano il numero di cento, raccogliendo tantissimi casi e testimonianze (in continua espansione ancora oggi), scritte e fotografiche, di medici e gente comune, arrivando nel frattempo a definire il metodo terapeutico che ne prende il nome. Nel 1996 deposita quindi il brevetto, ottenendone l’approvazione due anni più tardi.
In principio, il Metodo Ruffini viene accolto con un sorriso sarcastico; tuttavia, ben presto, alcuni ricercatori, quantomeno in ambito accademico, si devono ricredere, potendone osservare al microscopio le reazioni e confermando quindi la validità delle intuizioni e delle tesi del dottor Ruffini. Del resto, sugli usi medici dell’ipoclorito di sodio, c’è una bibliografia ricchissima, con studi da tutto il mondo.
Diversi dottori, soprattutto medici di famiglia, dermatologi e chirurghi ospedalieri, ne fanno uso e lo consigliano ai propri pazienti, in particolare in caso di infezioni antibiotico-resistenti o virali, come per esempio i diversi tipi di herpes. Oggi anche alcuni ginecologi cominciano a ricorrere al Metodo per combattere efficacemente la candida e perfino il papilloma virus.
Se in una prima fase si esplorano esclusivamente i canali ufficiali, già nei primi anni Duemila Paolo Ruffini, figlio del dottor Gilberto, fa sbarcare le ricerche del padre sul web: prima nel forum Alleanza della salute di Alberto Mondini e poi, nel 2012, su Facebook, aprendo la strada per una diffusione a livello di massa e la costituzione di una community ormai ben consolidata e molto vivace, che accoglie nuovi iscritti ogni giorno anche da fuori dei confini italiani. Nel 2008, intanto, Vincenzo Simoncini realizza volontariamente il primo sito Internet, rinnovato poi nel 2015 dal webmaster Johnny De Marco e, infine, nel 2020 dai tecnici di Sferica, cui viene affidato il restyling globale.
Ciò nonostante, continuano a non mancare le critiche, ma si affastellano parallelamente anche le testimonianze positive. Tra le accuse più diffuse, la più dozzinale è sempre stata quella che accomuna l’ipoclorito di sodio alla comune candeggina, accusando il dottor Ruffini di voler guarire i pazienti con il famoso prodotto per l’igiene domestica. Nel giugno 2014, cogliendo questa critica, esce il manuale ufficiale, scritto a quattro mani dal dottor Gilberto Ruffini e il giornalista Valerio Droga, dal titolo auto provocatorio: Curarsi con la candeggina?, tradotto successivamente anche in inglese.
L’ipoclorito di sodio, che è alla base del Metodo Ruffini, non è il solo composto di cloro di cui la medicina si sia servita nel corso della sua storia. L’uso dei disinfettanti e sbiancanti per uso domestico ha origine in Francia all’inizio del Novecento con sostanze a base di composti di cloro, come l’ipoclorito di potassio e l’ipoclorito di sodio, appunto, noti rispettivamente come eau de Javel e eau de Labarraque. Questo tipo di prodotti trova applicazione durante guerre ed epidemie, sia come azione preventiva che disinfettante, nonché per tenere lontani i cattivi odori dai reparti di ospedali e sanatori, dagli obitori o dalle stradine più maleodoranti dei quartieri malfamati.
Il cloro viene scoperto nel 1774 dal chimico svedese Carl Wilhelm Scheele e isolato, nel 1810, dall’inglese Humphry Davy. La sua diffusione come prodotto industriale è casuale ed è legata alla produzione della soda. È un elemento gassoso di colore giallo verde, tanto tossico quanto utile, che trova applicazione in moltissimi campi, non tutti propriamente filantropici. Il comune sale da cucina non è altro che cloruro di sodio, i nostri succhi gastrici sono costituiti per lo più da acido cloridrico, la trielina viene usata come solvente, l’ipoclorito di sodio beh, ormai non ha più bisogno di presentazioni. Il cloro serve a rendere potabili le acque, a tenere pulite le piscine. Il diclorodifeniltricloroetano, meglio noto come Ddt, è forse l’insetticida per antonomasia, oggi bandito. Il cloro è stato protagonista della guerra chimica nelle trincee della prima guerra mondiale, ma anche come disinfettante per evitare cancrene e diffusione di epidemie nei campi ospedalieri. Il Pvc o polivinilcloruro è un tipo di plastica fra i più adoperati, mentre composti del cloro costituiscono i gas refrigeranti di frigoriferi e condizionatori.
Ad applicare per primo l’ipoclorito di sodio in campo sanitario è Antoine-Germain Labarraque, chimico e farmacista francese vissuto a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Le soluzioni e le tecniche di Labarraque rimangono in uso fino ad oggi. Significativa – e perciò merita la nostra attenzione – è la vicenda di Ignác Fülöp Semmelweis, medico ungherese noto come “il salvatore delle madri“, per la prevenzione della febbre puerperale, che si serve di un altro composto del cloro, l’ipoclorito di calcio. Nel 1846 ha un incarico a Vienna come assistente nella prima divisione della clinica ostetrica più avanzata d’Europa, dove, tuttavia, si verificano numerosissimi casi di una strana febbre, responsabile di oltre l’11% delle morti delle partorienti. Dati simili si registrano in tutti i più grandi ospedali d’Europa e America. I medici sono costretti a effettuare fino a 16 autopsie al giorno, passando, senza sosta, alle visite interne delle partorienti. Nella seconda divisione, dove a far partorire le donne sono le ostetriche, il numero di decessi si aggira invece intorno all’1%. Le ipotesi sulle cause sono le più svariate e fantasiose e anche quelle avanzate da Semmelweis non sono da meno, finché non riscontra le stesse lesioni nel corpo di un collega morto per una breve malattia seguita a una ferita nel corso di una autopsia. L’ipotesi cui giunge Semmelweis è visionaria per l’epoca: la febbre puerperale è una malattia che si trasmette da un corpo all’altro per contatto.
Mette, quindi, in atto una disposizione che oggi a noi appare banale e scontata: tutti coloro che entrano nel Padiglione I devono lavarsi le mani con una soluzione di ipoclorito di calcio e le lenzuola delle partorienti devono essere cambiate dopo ogni parto. La percentuale di decessi precipita immediatamente al 5% e l’anno dopo si attesta all’1%, per risalire di nuovo vertiginosamente quando il direttore decide di non rinnovare il contratto a quel giovane presuntuoso medico ungherese, che osa emanare disposizioni che non gli competono, per altro offensive per i colleghi (l’obbligo di lavarsi le mani) e fastidiose per le pazienti (il cambio di lenzuola). Nonostante l’appoggio di alcuni amici, viene isolato dalla comunità scientifica, che non accetta l’idea di trasformare i medici in untori. E, siccome nessuno è profeta in patria, Semmelweis viene isolato anche dai colleghi ungheresi, invidiosi dei risultati ottenuti nell’ospedale San Rocco di Pest, dove ha esportato le sue norme igieniche, e viene fatto rinchiudere in manicomio, dove muore poco dopo a seguito delle percosse subite. È il 1865 e, in quegli stessi anni, Louis Pasteur sta conducendo i suoi studi che apriranno la strada alla microbiologia moderna, dimostrando che alla base della trasmissione di alcune malattie vi sia la contaminazione batterica.