Alla mezzanotte fra il 6 e il 7 agosto all’età di 77 anni si è spento il dottor Gilberto Ruffini, per un arresto cardiaco. Era stato ricoverato in ospedale per una setticemia, dalla quale però si stava riprendendo rispondendo positivamente alle cure. La sera del martedì ha tuttavia accusato una forte stanchezza e ha salutato i familiari riposando serenamente tutta la sera fino a quando, altrettanto serenamente secondo i medici del reparto, ha lasciato il suo corpo mortale.
Il dottor Ruffini, che fino all’ultimo è rimasto lucido, così ci lascia ma lascia anche una grande eredità umana e scientifica, in particolare per la fondazione del metodo di cura che da lui prende il nome, che ha portato avanti con determinazione e dedizione in tutti questi anni, senza mai avere un secondo fine di lucro. E questo nonostante lo scetticismo e perfino la facile ironia di quei pochi colleghi che non hanno mai dato abbastanza credito all’efficacia dell’ipoclorito di sodio in campo medico, nonostante la presenza di una vasta e secolare bibliografia scientifica cui il dottore ha ampiamente attinto. Per fortuna ha potuto sempre contare, invece, sul supporto della famiglia, sia umano che professionale, oltre che di tanti volontari che hanno sposato la causa, lasciandosi contagiare dal suo entusiasmo. Va ricordata in particolare l’opera di divulgazione del figlio Paolo, che ha fatto sbarcare il Metodo sul web e in particolare sui social, con una community robusta e attiva, che conta oggi quasi 20mila seguaci su Facebook, come pure su altri canali, e che si è unita in queste ore al cordoglio della famiglia.
Il dottor Ruffini, nonostante l’età e i disturbi dati dalla malattia che lo affliggeva da anni, non si è mai sottratto al confronto col pubblico, rispondendo a commenti, email, perfino telefonate e offrendosi anche alle telecamere, convinto com’è sempre stato della validità del Metodo e delle potenzialità applicative dell’ipoclorito di sodio, capace di distruggere virus, funghi e batteri, uccidere parassiti e combattere così, con costi davvero insignificanti, oltre un centinaio di malattie e disturbi di pelle e mucose.
A questo scopo è stato anche scritto, con la collaborazione del giornalista Valerio Droga, il manuale d’uso, ‘Curarsi con la candeggina?’, tradotto anche in lingua inglese per una diffusione globale, coronando così anche il sogno del dottor Ruffini di arrivare in Africa, dove non arrivano invece molte medicine e dove ancora fin troppo spesso le malattie infettive risultano fatali. Una vita professionale, dunque, vissuta come una vera e propria missione. “Il Metodo Ruffini – come ha scritto Paolo Ruffini – è stato il compimento di molti anni di studio, di dedizione alla sua missione medica, al suo impegno di aiuto”.
Missione medica che possiamo comprendere meglio ripercorrendo le tappe più importanti della sua vita. Il giovane Gilberto Ruffini, di origini contadine umbro-toscane, cresciuto in un orfanotrofio e collegio, comincia la sua carriera dal gradino più basso, come semplice garzone in uno studio dentistico di Varese, diventa poi odontotecnico, studiando e lavorando al tempo stesso, quindi medico chirurgo a Milano ereditando lo studio del vecchio maestro. Infine, pur continuando a esercitare la professione dentistica fino alla fine della carriera, a Pavia si specializzerà col massimo dei voti in Ematologia clinica e di laboratorio, sotto la guida di quello che è considerato il padre storico dell’ematologia, Edoardo Storti. Nei suoi 42 anni di carriera, presterà servizio anche in ospedale e insegnerà all’università, senza per questo fregiarsi dell’ambìto titolo di professore, perché non aveva nulla da dimostrare, la sua carriera parlava da sé.
Come ha scritto nell’appassionato commiato sulla pagina Facebook il figlio Paolo, “ricordo quando ancora piccolino lo accompagnavo alla sera a far visita ai pazienti soli e infermi e che per questo non potevano raggiungerlo nel suo studio di Varese. Ricordo le caramelle e i dolci che ricevevo in cambio di quella visita perché lui non chiedeva nulla. Ricordo le grandi manifestazioni di gratitudine di chi ci raggiungeva a casa per abbracciarlo. Ricordo lo studio gremito di gente perché avevano scelto lui e aspettavano anche ore in sala d’attesa. Ricordo lo spirito che vedevo nei suoi occhi davanti ad un malato e che ho avuto l’onore di percepire”.
Sarà forse il caso, come si è detto più volte, a portarlo nel mondo della libera ricerca, quando una goccia del ‘suo’ ipoclorito, utilizzato ampiamente in ambito dentistico per la disinfezione dei canali radicolari, cadde su un’afta di una paziente e, incredulo, assistette a una reazione che manifestava un inizio di guarigione. Dopo aver raccolto una casistica ragguardevole, chiese e ottenne nel 1996 il brevetto del Metodo, ma questo era solo l’inizio di un percorso che ha sempre portato avanti fino all’ultimo giorno, confrontandosi sempre con colleghi che volessero approfondirlo o portare anche nuovi contributi. Un metodo che certamente non muore con lui ma che continuerà sempre a rimanere nell’attenzione e nella cassetta degli attrezzi di tanti medici e pazienti che vi si vogliano affidare.